CARCÀRI E CIARÀMITARU DI PIETRAPERZIA di Giovanni Culmone – 1^ Parte

 

ISSÀRU E CANALÀRU

Produzione di gesso e fabbrica di terracotta per tanti anni affiancarono la più vivace attività agricola e contribuirono ad arricchire il territorio. Erano industrie a conduzione familiare che, per qualche secolo con successo, apportarono ricchezza al tessuto sociale e fecero conoscere i loro prodotti ai paesi vicini.

issàru e canalàru erano nomi che indicavano mestieri: produttore e/o rivenditore di gesso il primo, costruttore e/o rivenditore di tegole il secondo. Col passare del tempo, nell’uso dialettale locale, i mestieri degli avi sono diventati nomignoli per identificare meglio
le persone.
Issàra, plurale di issàru fu affibbiato ad alcuni filoni di Di Perri, Ciulla, Bonaffini, Apàssolo, Pepe e Spampinato, canalàra, plurale di canalàru ai  Napoli e ad alcuni filoni Tortorici.
Bbù̢rgia di lu ciaramitàru

Issàra e canalàra, sono stati da sempre concorrenti nell’approvvigionarsi della paglia e maestri nella costruzione di bbù̢rgia. Entrambi, gestori di fornaci, facevano ricorso allo stesso combustibile povero, che cercavano di accaparrarsi con ogni mezzo nel periodo della trebbiatura. La paglia che riuscivano ad ottenere la trasportavano in prossimità della loro azienda e la stoccavano in voluminosi bbù̢rgia.

Li issàra utilizzavano il solfato di calcio biidrato CaSO4·2(H2O), roccia presente in contrada Marano, li canalàra usavano l’argilla presente a lu ciaramitàru in contrada Piano Noce.

PERFORAZIONE DELLA ROCCIA

 
La roccia veniva aggredita con cariche esplosive pruvulàti e al seguito si frantumava in massi più o meno grossi che venivano giù dalla parete principale. Era una procedura che richiedeva scrupolo, cura e perizia e doveva essere preparata con maestria e responsabilità. Da sopra, arretrati di un metro circa dallo strapiombo, si praticavano, a mano, serie di fori di quattro centimetri circa di diametro, opportunamente distanziati, e molto profondi che a volte raggiungevano i sei metri. Per scavarli si procedeva con un pesante palo di ferro a taglio, che a ritmo costante si alzava, si girava un po’ e si lasciava cadere. Di tanto in tanto, nel nascente foro, vi si versava dell’acqua, quanto bastava ad impastare la polvere prodotta che si estraeva con una canna spaccata in punta. Il palo a taglio, all’occorrenza allungabile da dietro, vi se ne poteva avvitare un altro.
Ultimato lo scavo dei fori, il gessaio addetto, con competenza e professionalità, pari a quella del più esperto artificiere, passava ad introdurvi le giuste cariche esplosive e a stendere le lunghe micce.
A monte e a valle della strada provinciale per Riesi, su cui si affacciavano le cave, operai dell’azienda bloccavano temporaneamente il traffico fino all’esplosione dell’ultima mina, onde evitare danni alle persone provocati dalla ricaduta di qualche frammento solido. Caratteristico era il rimbombo avvertito nelle contrade limitrofe che tutti riconoscevano come pruvulàti di issàra o pruvulàti a li Carcàri e non confondevano con i tuoni delle turbolenze atmosferiche.
Dopo le esplosioni si selezionavano i massi più o meno maneggevoli o si riducevano a tali con l’aiuto di grosse mazze e poi a mano, a spalla o con ogni mezzo di trasporto si avvicinavano alla fornace per la successiva manipolazione. 
ALABASTRO GESSOSO
Maràno: cava di alabastro e gesso. La stratificazione consentiva lo stacco più o meno spesso di lastre adattabili ad ogni tipo di lavorazione. I massi non più utilizzabili e lo sfrido andavano cotti in fornace

I massi più piccoli, ritenuti non idonei all’utilizzo artigianale, assieme ai resti della lavorazione, finivano nella fornace per diventare anidro o gesso comune.

In alcune cave era presente l’alabastro gessoso, minerale molto simile alla roccia di gesso e con la stessa formula chimica CaSO4·2(H2O) perfettamente sfaldabile e riducibile in lamine più o meno sottili. Dopo lo stacco dalla roccia madre si selezionavano i massi più compatti per consegnarli a scalpellini e farne piastrelle per pavimentazione, rivestimenti di scale, portali, stipiti di porte d’ingresso di civili abitazione od altro.
Il pavimento della Chiesa Madre, realizzato tra il 1830/1840 con piastrelle quadrate di cm. 40×40 che non superavano gli 8 cm. di spessore, fu sostituito col marmo di Carrara alla fine del 1900.
Nella chiesa dell’Annunziata, oggi del Santo Rosario, a tutt’oggi resiste il vecchio pavimento di alabastro locale anche se qualche piastrella, durante l’ultima restaurazione, è stata sostituita con quello più duro e di colore diverso di Volterra.
La qualità dell’alabastro locale non eccelle, ha poca durezza compresa tra 2,5 e un massimo di 3 della scala di Mohs ed è ritenuto molto tenero per resistere all’usura nel tempo.
Pietraperzia via Nazario Sauro n° 27, gradini di alabastro locale che a tutt’oggi – Ottobre 2017 – rivestono la scala d’ingresso di una casa di civile abitazione

 

Pietraperzia Via Ville, n° 3 e n° 5 – Ottobre 2017 – Portali in alabastro locale proveniente dalla cava di Marano


COTTURA DEL GESSO

Le fornaci avevano dimensioni diverse ma tutte conservavano la forma cilindrica. Costruite in pietra rotta erano a cielo aperto. Il raggio di base di alcune superava i tre metri e l’altezza spesso superava i cinque metri. Insistevano su terreno scosceso per disporre di due accessi opposti a diverso livello. L’accesso posteriore serviva solamente a riempire la parte alta della fornace. Nel pavimento a fondo naturale, una depressione, delimitata da un gradino alto e largo venti centimetri circa, costituiva il contorno di base che al momento della cottura fungeva da contenitore di cenere.
Nella parte interrata, le pareti della fornace anch’esse in pietra rotta reggevano la terra circostante.
Il riempimento cominciava col disporre i primi massi sul gradino di base e appoggiati alla superficie laterale, disposti a cerchi sovrapposti sempre più piccoli fino a chiudersi in alto a cupola. Si completava col disporre sopra la cupola i frammenti di roccia che, per le piccole dimensioni, non erano state utilizzate per riempire l’interno.
Ruderi di fornace in riempimento vista dall’alto con edificio abitativo attaccato
L’accesso secondario, dopo il riempimento, veniva chiuso in muratura. Quello in basso, il principale, a forma quasi di triangolo isoscele, come l’altro, con base di 60/70 centimetri ed altezza poco superiore al metro e mezzo, dopo le ultime operazioni di pulitura della base e lo sgombero dei materiali superflui diventava bocca della fornace per tutto il tempo della cottura che durava dalle sei alle otto ore.
Accesso principale della fornace trasformato in bocca di fuoco
Si iniziava ad ardere prima dello spuntare del sole e si proseguiva, senza interruzione, per sei otto ore a seconda della stagione. Il lavoro era molto duro e veniva fatto da più persone: alcune, portavano la paglia allo imbocco della fornace, mentre due, con furcèḍḍi di legno, immettevano alternativamente spruzzi di paglia che producevano grosse fiammate.
Il trasporto della paglia verso la fornace avveniva con grossi sacchi, riempiti fino all’orlo, fortemente pressati, chiusi da corda passante a zig zag negli occhielli esistenti ai bordi.
Si smetteva solo quel tanto necessario per utilizzare la cciàppa, lungo spiedo con un arco di cerchio in punta, fino a liberare la bocca della calamì̢ta, situata al centro del pavimento, e liberare la fornace dal grosso cumulo di cenere: bastava introdurla nel cumolo, spingere verso l’alto che grosse fiammate divoravano tutta la cenere.
Al raggiungimento di 128°C i tre quarti d’acqua contenuta nei cristalli del solfato di calcio biidrato CaSO4·2(H2O) evaporava e la colorazione assunta dei massi lambiti dalla fiamma, suggeriva all’esperto gessaio l’avvenuta cottura. Si interrompeva la combustione, si ricopriva la cenere rovente, alla base della fornace, con la breccia rimasta dalla frantumazione dei massi per ottenere altra quantità di gesso cotto.
A questo punto il Solfato di Calcio Biidrato era diventato anidro o gesso comune con la relativa formula chimica CaSO4·½H2O che evidenzia la perdita del 75% dell’acqua iniziale.
Dopo alcune ore si procedeva a fare implodere il manufatto a cupola che faticosamente s’era costruito e si copriva l’intera fornace con tetto di fortuna per proteggere il prodotto, da improvvisi acquazzoni, che lo avrebbero irreparabilmente compromesso.
Una fornace, riempita come descritto, produceva dalle duecentocinquanta alle duecentosettanta sàrmi salme di gesso. La sàrma utilizzata dei gessai era di sedici tù̢mmina, sedici stai e fatti i calcoli pesava circa 256 chilogrammi.
Senza l’aggiunta del brecciolino finale, tecnica adottata da alcuni gessai che preferivano lasciare sempre il tetto di copertura per non rifarlo di volta in volta, la produzione si abbassava di venti salme circa.
Giovanni Culmone

 

continua…

 

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