Intervista impossibile a Giuseppe Tomasi di Lampedusa

Se potessimo ancora parlare con il buon vecchio Principe, cosa gli chiederemmo? Fra il 1974 e il 1975 Radio Rai mandò in onda il programma radiofonico “Le interviste impossibili”: un intervistatore fingeva di dialogare con un uomo del passato, che da un immaginario Aldilà forniva risposte al confine fra il reale e l’esilarante, ma tutte profondamente vere. Ecco, sulla scia di questi Dialoghi, ho risvegliato il nostro amato Principe. E queste sono le parole che ci siamo detti.

 

V. Salve …eeehm Principe, Duca, Barone, ecco, non so come chiamarla.
G. Salve a lei signorina. Mah, mi chiami solo Giuseppe. Sa, da questa parte non conta più nessun titolo. Ma mi dica: cosa la porta a varcare il tempo per venire qui a parlare con un vecchio nobile decaduto?
V. Ecco, vorrei parlare con lei del Gattopardo.
G. (Sorride a mezza bocca, fra il divertito e l’amareggiato) Già, che domanda scontata le ho fatto! È l’unica cosa che ho scritto.
V. (Sgrano gli occhi per lo stupore) Primo best seller italiano e oggi tradotto in decine e decine di lingue. Direi che non le è andata poi così male! Ha realizzato il suo sogno, no? (Sorrido) Manzoni lavorò vent’anni ai suoi Promessi sposi, ma se oggi non fosse supportato da decine di pagine sui manuali scolastici e da fior fior di antologie temo che la sua opera verrebbe dimenticata. Lei scrive il suo romanzo in appena due anni, si dilegua prima che venga pubblicato, i manuali le dedicano appena due colonne, eppure riscuote successo.
G. Non esageri, signorina. Manzoni è Manzoni. E poi erano altri tempi…
V. Già. Se Leopardi avesse scritto oggi la sua Ginestra su Facebook, avrebbe ottenuto appena un migliaio di like fra Torre del Greco e Recanati, e il giorno dopo non se ne sarebbe più parlato. Stendiamo un velo pietoso. Mi diceva che i titoli nobiliari nell’Aldilà non hanno più alcun valore, è interessante…
G. Altroché! Non sa che gran sollievo. Tutto il Gattopardo è intriso di quel melenso, struggente, ineluttabile senso della fine. Al tramonto della mia vita scrivevo quelle pagine come uno sventurato che sta per scivolare giù da un precipizio, le parole erano graffi sulla roccia, lasciati dagli artigli di quel Gattopardo. Maestoso. Nobile. Ma destinato a soccombere…
(Si incupisce. Le zampate, gliele vedo ora sulla fronte, fra le sopracciglia aggrottate.)
…poi il fiero felino precipita. Io precipito. E mi sveglio qui. Luce accecante. Strofinai gli occhi e li affondai in un azzurro zaffiro, denso e terso. Dapprima pensai che fosse uno scherzo: pensai di essere resuscitato in Sicilia, in una di quelle giornate primaverili, d’aprile o dicembre che fosse. Trassi un respiro più profondo che mai, come se non ci fossero più i polmoni a confinare l’aria: il tumore mi aveva traghettato qui e m’aveva abbandonato.
V. (Non riesco a trattenere una lacrima che fa capolino nei miei occhi, e cade scorre precipita lungo le guance schiantandosi sul foglio degli appunti, come quel Gattopardo in fondo al precipizio. Mi scuso).
G. Suvvia signorina! È così vulnerabile?! Mantenga il contegno, è un’intervista. Mi sembra proprio come quei siciliani… dai lineamenti severi come il sole di luglio, e poi facili ad abbandonarsi ai sentimenti come le spighe di grano cullate dal vento caldo.
V. Ancora con questo paesaggio? (Tono affettuoso.) Non vorrà farsi rimproverare da Sciascia anche qui.
G. Sciascia, Vittorini, allora agli esordi, avevano solo paura. Temevano che io potessi adombrarli, rubare loro la scena. Ma un astro è un astro. Le stelle in cielo non hanno paura di finire in secondo piano. Sono miliardi e c’è posto per tutte, basta che stiano alla giusta distanza. E io mi allontanai il più possibile: morto! (Ride di gusto) Quando hai qualcosa da dire dillo forte, senza paura che le altre voci si possano sovrapporre alla tua. I messaggi viaggiano ciascuno nella propria orbita, solo così giungono lontano.
V. Mi rincuora. Sa, di questi tempi fra mass media e social network c’è un tale rumore, solo pianeti in collisione. Chissà se avremo lasciato qualcosa o solo mandato l’universo in frantumi…
G. L’universo è in continua espansione, mia cara. Ne so qualcosa di astronomia. Seminate e non preoccupatevi.
V. Avrei qualcosa da chiederle a proposito di quella questione dell’Unità… Adesso che sta da questa parte dove non ci sono più aristocratici né liberali, Borbone né Savoia, può aiutarci a far luce su quegli anni così controversi?
G. Se leggeste il romanzo con la dovuta attenzione ci trovereste tutto. Ecco perché ci tenevo tanto a lasciarvelo! Le immagini, i dialoghi, ogni singolo aggettivo è un saggio storico su quegli anni. Vestito di poesia, certo, ma pur sempre vero. Se avessi solo voluto intonare il canto del cigno della mia classe sociale avrei scritto una poesia, non crede? Vi piace tanto leggere quel dialogo con Chevalley sul sonno e la morte, e tralasciate tutto il resto.
V. È comodo cantare la solita nenia dei siciliani in preda a Morfeo e incapaci di fare. Questo li tiene a bada. È un elegante suggello letterario. Credo che convenga a qualcuno non leggerlo in profondità come meriterebbe. Lei sa bene che l’uscita del suo romanzo scatenò un gran dibattito. Si disse che lei “vituperava la memoria del Risorgimento”.
G. (Ghigna sarcastico) “Vituperare”?! Dovremmo far vituperio di tutta la Storia e riscriverla come si fa con un romanzo, ma da noi stessi! Quella sì sarebbe vera Storia. Più delle storie che ci raccontano con la pretesa che sia verità… Liberarci dallo straniero, volevano! “Ne, Salina, beate quest’uocchie che te vedono”, così il Re aveva accolto il Principe, con un “accento napoletano che sorpassava di gran lunga in sapore quello del ciambellano”. E poi, qual è per un siciliano il concetto di “straniero”? Quindici dominazioni abbiamo avuto, di cui quei diplomatici imbellettati – venuti a proporci di sedere al loro Parlamento, più come un privilegio che come un diritto quale avrebbe dovuto essere – costituiscono l’ultima. Volevano piazzarsi sullo scacchiere politico europeo, ma erano piccoli e fragili. L’Inghilterra accorse in aiuto e lo fece a caro prezzo. Come pagare il debito? Abbassarono gli occhi sui ducati d’oro che riempivano le nostre banche, ecco come! L’Inghilterra pagò quell’uomo di dubbia moralità di Garibaldi che oggi troneggia sulle nostre piazze; pagò le organizzazioni criminali che oggi dilagano come metastasi in questo Stato ammalato, e si fece la conquista.
V. Ci identificano con la Mafia, ma furono le loro esigenze stesse a sancire il patto con lei. Fecero di quelle che erano disorganiche bande criminali, un’organizzazione a tutti gli effetti. Ed ebbero il coraggio di chiamare “briganti” quelli che per anni si ribellarono a quella che era stata solo l’ennesima conquista. Certi giudici e magistrati che muoiono oggi da eroi è lo Stato ad ucciderli, insieme alla Mafia… Però, lei descrive anche un Re “col faccione smorto fra le fedine biondiccie” e dice che la monarchia borbonica era “stomachevole” come il mobilio.
G. Ferdinando era un Re. Aveva proposto lui per primo già nel ’32 una Lega di Stati italiani, ma nel rispetto delle libertà di ognuno di essi. E già alla fine del Settecento suo padre Francesco aveva rifiutato la proposta dei suoi ministri di annettere la marca di Ancona, la Toscana… Non certo il figlio Franceschiello, che era solo un “seminarista vestito da generale”, Ferdinando era un Re e la monarchia era morta insieme a lui. (Indugia pensoso) E alla fine, fatta l’Italia, siete riusciti a fare gli italiani?
V. Macché! Quelli che vollero unirla a tutti i costi dal di fuori, ora sono gli stessi che vogliono tenerla divisa dentro. Partiti, divisionismi, Nord e Sud. Se fosse per loro stessi, gli italiani si amerebbero. Se solo qualcuno non si adoperasse per metterli gli uni contro gli altri… Ma la regola è quella di sempre: divide et impera.
(Lungo silenzio. Gli occhi del Principe sono persi nel vuoto. Trapela inquietudine dall’espressione assorta)
V. Perdoni l’incursione pagana in questo suo tempo sacro, ma sa, oggi è il 31 dicembre. Cosa si sentirebbe di dire in proposito ai suoi lettori?
G. Vivete ogni giorno coscienti, vigili e pieni di propositi come fosse l’ultimo dell’anno. Agite ogni giorno come foste gli ultimi rampolli di una casata in estinzione, come aristocratici in declino. Alla fine restano solo le opere, materiali o scritte che siano.
Mi scusi, ora devo lasciarla. Mi chiamano. (Sorride. Si alza)
VOCE FUORI CAMPO Fabrizio! Fabrizio!

(Riconosco la voce inconfondibile di Mariannina, che squarcia come un lampo il velo del silenzio. Popolana, vigorosa e squillante. Sbatto le palpebre. Mi perdo nell’azzurro di due occhi che mi fissano fieri e benevoli. Il volto illuminato dal bianco abbagliante di una cravatta dal nodo perfetto. La figura possente si volta portando con sé il suo sorriso, e si perde anche lei nell’azzurro. Immobile. Non scorgo più nulla. Solo qualcosa che scodinzola pettinando la luce. Il Principe si allontana col fedele compagno ancora al suo fianco, ingoiato dalla luce).

Valeria Bongiovanni
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